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Una strenua chiarezza. Un titolo per una mostra, quella dedicata a Primo Levi inaugurata lo scorso 22 gennaio a Palazzo Madama, Torino, e visitabile fino al 6 aprile. Ma anche un originale sintagma per definire l’attività culturale e umana di un torinese d’eccezione, ritenuto una delle personalità più originali del Novecento dai curatori dell’esposizione, Peppino Ortoleva e Fabio Levi.
Il vagone merci piombato delle FS collocato in piazza Castello – già tristemente oggetto di sterili polemiche a sfondo politico – annuncia al visitatore il grande tema della mostra allestita a pochi metri di distanza. Primo Levi è infatti colui che visse sulla propria pelle l’orrore del Novecento riportandone memoria e riflessioni in “Se questo è un uomo” e “La tregua”. In tutto e per tutto uguale ai vagoni che durante la seconda guerra mondiale percorrevano la rotta infernale dalle città italiane ai campi di sterminio nazisti, quell’oggetto ci predispone ad affrontare la figura di Primo Levi con umiltà e rispetto, ripensando alla grande tragedia dei lager per cui il 27 gennaio il mondo si sofferma a riflettere e ricordare. Tuttavia, Primo Levi non è solo l’ebreo deportato e sopravvissuto all’incubo disumano di Auschwitz, e a suggerircelo è il titolo stesso della mostra “I mondi di Primo Levi”. L’intento dell’esposizione è infatti quello di celebrare nella sua Torino una personalità varia e molteplice che ha immensamente arricchito il panorama culturale novecentesco del capoluogo sabaudo e dell’Italia intera, arrivando anche a conquistare riconoscimenti internazionali. Davanti agli spunti e approfondimenti offerti da questa bella occasione culturale vi sorprenderete forse a scoprire un altro Primo Levi, e ad avere voglia di scoprirlo nella sua intera dimensione umana, che coinvolge ma supera l’esperienza del lager.
Il percorso inizia dal Carbonio: tra i racconti di Levi è stata infatti recuperata dagli ideatori della mostra la “Storia di un atomo di carbonio”, straordinario e sorprendente percorso nel ciclo che accompagna l’atomo dalla roccia, all’atmosfera, al cibo, al corpo umano, fino all’intelletto e alla scrittura. È una storia nella quale l’atomo figura spesso come un prigioniero impotente, con esplicito riferimento all’esperienza nei campi di sterminio vissuta dall’autore: “Una prigionia, per lui potenzialmente vivo, degna dell’inferno cattolico”. Ma, a confermare l’esistenza dei molti mondi abitati da Levi, anche l’esperienza letteraria viene coinvolta nel cammino di quest’atomo di carbonio, che sembra aver vissuto il mondo per poi, come scopo finale, riuscire a parlarne: “questa cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l’atomo in questione, è addetta al mio scrivere, (…) fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù, fra due livelli d’energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo”.
L’allestimento è volutamente spoglio, metallico, freddo, con pannelli issati su scale aperte quasi fungessero da cavalletti, un po’ come in un laboratorio, una stanza in costruzione, un percorso che si coglie nel suo insieme in divenire, unendo le componenti – gli atomi, verrebbe da pensare – di una vita intera intessuta delle più varie esperienze, da quella atroce dei campi di sterminio nazisti a quella del lavoro di chimico in azienda, e ancora alla vocazione letteraria e ai giochi di parole. Suggestivo è il “tunnel” ricreato nel passaggio che dall’esperienza del lager e della tremenda fuga riporta poi al tema della memoria, affrontato da Levi in scritti letterari, articoli, dibattiti, doverosamente riportati in video e ritagli di giornale. Le pareti del tunnel, inclinate quasi a schiacciare e soffocare lo spettatore, sono rivestite all’interno di citazioni dai romanzi dei lager di Levi “Se questo è un uomo” e “La tregua”. Frasi brevi ma lapidarie nel loro dolore universale: “Il mio nome è 174517, siamo stati battezzati”; “La ragione l’arte la poesia non aiutano a decifrare il luogo da cui sono state bandite”; “Qualcuno di noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia”.
Subito dopo la fuga da Auschwitz e il ritorno, vivo, in Italia, Levi inizia a ripensare all’esperienza del lager attraverso la scrittura: poesia, narrativa, articoli. Nei suoi ricordi c’è l’orrore umano, ma c’è anche la vita quotidiana fatta di lavoro pesantissimo alla Buna, la fabbrica di gomma sintetica dove lavorava, come prigioniero, grazie alle sue conoscenze in chimica. Dagli anni Sessanta alla prima metà degli Ottanta, Levi svolse regolare attività nelle scuole e dei dibattiti pubblici, favorendo il dialogo sul tema dello sterminio nazista. Non a caso al tema della memoria fragile è dedicata la sua ultima pubblicazione, datata 1986, “I sommersi e i salvati”, sintesi delle riflessioni portate avanti dal 1945 sulla inquietante verità dei lager contro l’indifferenza e l’oblio dei lettori estranei a quell’esperienza disumana di cui lui, invece, era testimone vivente.
Ma, lo abbiamo detto, non solo ebreo sopravvissuto era Levi. Era innanzitutto un chimico, ma anche uno scrittore, tanto che nel 1986 incontrò nella sua Torino Philip Roth, grazie al quale fu riconosciuto a livello internazionale come intellettuale a tutto tondo, non solo per il suo fondamentale ruolo di testimone, ma anche per la sua voce di narratore. È un passaggio importante, che forse chi legge Levi oggi a scuola non è portato a considerare, riducendo di molto il valore letterario di uno scrittore tra le voci più originali del Novecento. La mostra infatti, ripercorrendo tutta la vita e l’opera di Levi, ne evidenzia la qualità di autore, di “manipolatore di parole”, citando alcune suggestive metafore e sintagmi: la strenua chiarezza che dà il nome alla mostra, suggestivamente riferibile alla stessa attività di Levi, che con valorosa chiarezza si fece portavoce di valori, storie, idee, e poi ancora la “mite latta”, i “barbarici nomi sonanti”, “un nulla bianco e tranquillo”, la “fiera monotonia”. Giochi di parole, accostamenti di idee, suoni, sinestesie, azzardi letterari che creano nuovi significati, ricchezze semantiche tra il divertito e il riflessivo, che svelano altri, nuovi e inaspettati mondi di Primo Levi.
Conosciamo infatti un Levi traduttore de “Il processo” di Kafka, in sfida solitaria con quella lingua tedesca che per lui aveva rappresentato tanto orrore e asprezza personale, non solo metaforica. E ancora, nel laboratorio linguistico in cui ci addentriamo mentre scorgiamo un vero laboratorio chimico riprodotto nella sala, incappiamo in un geniale palindromo bilingue in cui Levi riesce a parlare di arte e di sfida, un binomio simbolico se associato alla sua vita artistica. Il Levi letterario scopre cose e si cimenta con vari generi: c’è la fantascienza, per esempio, o il romanzo che ribalta il cliché dell’ebreo remissivo portando in scena le vicende di un gruppo di ebrei appartenente alla resistenza contro il nazismo, “Se non ora quando”, Premio Campiello nel 1982. E poi c’è il grande romanzo dedicato alla chimica e vincitore nel 2006 del premio della Royal Institution britannica come miglior libro di scienza mai scritto, “Il sistema periodico”, del 1975, capolavoro del Levi chimico. Rimbalzati tra elementi della tavola periodica, rivediamo il “tunnel” di Auschwitz e scopriamo ancora un altro, nuovo, mondo di Levi, quello de “La chiave a stella”, romanzo delle “avventure metalliche” (la frase è tratta dall’apparentemente anonima quarta di copertina, scritta in realtà dall’Italo Calvino einaudiano) dell’operaio superspecializzato Tino Faussone, che gira i continenti con il suo lavoro.
Termina qui il percorso del grande scrittore e scienziato torinese che tutto il mondo conosce per essere stato, davanti a tutti suoi altri mille mondi e prima di tutto, un grande uomo. Tanti risvolti, un triste finale noto a tutti, ma una morale che, ancora una volta, richiama a quella strenua chiarezza del titolo: il coraggio di dire le cose per ciò che sono, con estrema limpidità. Ed è con una citazione da “Racconti e saggi” che si chiude il percorso:
“Prego il lettore di non andare in cerca di messaggi. È un termine che detesto perché mi mette in crisi, perché mi pone indosso panni che non sono i miei, che anzi appartengono a un tipo umano di cui diffido: il profeta, il vate, il veggente. Tale non sono; sono un uomo normale di buona memoria che è incappato in un vortice, che ne è uscito più per fortuna che per virtù, e che da allora conserva una certa curiosità per i vortici, grandi e piccoli, metaforici e materiali”.