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È il 1962 quando Dorothy Baker dà alle stampe Cassandra at the Wedding e assegna al suo romanzo questo titolo neutro, un po’ ambiguo e fuorviante, viene da dire una volta finita la lettura. Perché la storia che si trova tra queste pagine non è quella di una ragazza di nome Cassandra che si limita ad andare ad un matrimonio.
Ma andiamo con ordine.
Conosciamo la protagonista una mattina, nel suo appartamento di Berkeley, cittadina universitaria a pochi chilometri da San Francisco, mentre si prepara per partire e tornare alla sua casa natia dove l’attendono la nonna, il papà e la sorella gemella con il suo futuro sposo. Ed è proprio questo il motivo per cui Cassandra Edwards si sta preparando, per il matrimonio di Judith. Di solito un evento come questo è sinonimo di gioia e felicità, ma non in questo caso, perché Cassandra soffre questa decisione della gemella, non la comprende e non vuole provare a capirla in nessun modo. Anzi, la percepisce come un tradimento.
Perché Cassandra e Judith hanno sempre vissuto in simbiosi, si sono create un loro mondo speciale e chiuso abitato solo ed esclusivamente dalle due gemelle. E pensare che la mamma, fino a che è stata in vita, ha sempre voluto che le due bambine si creassero una propria identità individuale e se la nonna le voleva vestite uguali, la sgridava e glielo impediva in tutti i modi.
E, tra le due, è Jude quella che, a un certo punto, sente il bisogno di evadere, di separarsi fisicamente dal suo doppio che la soffoca senza rendersene conto. Il problema è che Cassandra prende male, malissimo questo distacco e smette di mangiare, di curarsi di sé, tenta il suicidio una volta e poi una seconda. E quando apprende la lieta notizia, si rifiuta di imparare il nome del futuro cognato e di volerlo conoscere e si prefigge lo scopo di spiegare alla sorella l’errore che sta facendo cercando di convincerla ad annullare tutto. Cassandra è innamorata di Judith, di un amore morboso e malato che la porta ad annullare completamente il suo vero io, pur di poter stare sempre accanto alla gemella.
Poi, quando tutto raggiunge il climax più drammatico, pare che questa ragazza si ricreda di tutto, che capisca all’improvviso la necessità di vivere una vita propria senza voler meno bene alla sorella. E se da un lato questo porta il lettore a tirare un sospiro di sollievo, dall’altro è tutto talmente troppo rapido e inspiegabile che disturba un po’ e incrina leggermente la bellezza di questo romanzo.
Non nascondo che, ad un certo punto, diventa decisamente disturbante leggere queste 262 pagine di introspezione e pensieri malati, di una donna estremamente intelligente che decide di buttare via la sua vita per rimanere attaccata come una cozza alla gemella che, invece, ha capito che per vivere bisogna separarsi necessariamente in senso fisico. La grande differenza tra Cassandra e Judith è proprio questa: la seconda ha capito che si può essere sorelle pur essendo separate, mentre la prima pensa esattamente il contrario.
La Baker è stata molto coraggiosa a scrivere un romanzo del genere negli anni ’60 quando parlare di lesbismo, di ossessione morbosa verso una persona del proprio stesso sesso era considerato tabù; eppure lo fa con una delicatezza e una maestria non comuni che rendono il racconto equilibrato e garbato, proporzionato nella sua follia e insania.
La maggior parte dei pareri negativi che ho letto riguardano il fatto che dal titolo ci si aspetta tutto fuorché una storia come quella che si trova effettivamente tra le pagine del romanzo, ma, come dicevo all’inizio, penso che questa scelta sia stata dettata dal periodo storico e dai temi trattati all’interno del romanzo, tanto che in nessun modo questo mina il contenuto e la bellezza del libro.