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“Quando ero giovane lavoravo in una casa d’aste londinese ed ero profondamente attratto dalla bellezza dei quadri. Li osservavo così da vicino che un giorno mi attanagliò l’idea che con troppa arte potessi perdere la vista. Mi recai da un oculista ed ebbi una specie di illuminazione: perché soffermarsi sui dettagli quando ci si può emozionare di più guardando l’orizzonte da lontano? Così ho deciso di viaggiare con un concetto semplice stampato nella mia mente: partire da casa e andare lontano, sempre di più, fino a dove il lontano fosse diventato vicino, fino a dove le distanze non avessero più senso, fino a dove anche il tempo avesse poca importanza. E ho iniziato a vivere”. Questa citazione da sola basterebbe, più di tante parole, a descrivere la personalità brillante, eclettica e proiettata verso il futuro di Bruce Chatwin.
Scrittore e viaggiatore britannico, Chatwin nacque il 13 maggio a Sheffield, nello Yorkshire. Frequentò in seguito Marlborough College, nel Wiltshire, e nel 1958 iniziò a lavorare per la prestigiosa casa d’aste londinese Sotheby’s, dove per la sua perspicacia e sensibilità in materia di percezione visiva divenne l’esperto impressionista. A 26 anni decise di abbandonare il lavoro e rivolgere lo sguardo verso “l’orizzonte”.
Si iscrisse alla Facoltà di archeologia presso l’Università di Edimburgo,nel 1969 viaggiò in Afghanistan in compagnia di Peter Levi e in Africa, dove venne attratto dallo stile di vita essenziale delle popolazioni nomadi. Nel 1973 il Sunday Times Magazine lo assunse come consulente di arte e architettura, permettendogli di compiere numerosi viaggi fra gli immigrati algerini e sulla Grande Muraglia cinese e di intervistare personaggi quali André Malraux in Francia e Nadežda Mandel’štam nell’Unione Sovietica.
Tra gli altri, Chatwin intervistò anche l’architetto novantatreenne Ellen Gray nel suo studio di Parigi, dove notò una mappa della Patagonia che la donna aveva dipinto. Lo scrittore espresse il suo desiderio di visitare quella terra così lontano, tanto che non si sottrasse all’invito della Gray di recarsi al posto suo. Fu così che partì per la Patagonia, annuciando al giornale le sue dimissioni con il telegramma “Sono andato in Patagonia”. Nel 1977 venne pubblicato il diario In Patagonia, che lo consacrò come scrittore di viaggi. Verso la fine degli anni Ottanta, Chatwin si ammalò di AIDS, tenne nascosta la sua malattia e purtroppo non rispose positivamente alle terapie, morendo nel 1989, a soli 48 anni, a Nizza.
Tra le sue opere più famose ricordiamo Il Viceré di Ouidah (1980), uno studio sulla tratta degli schiavi e Le vie dei canti (1987), sviluppo della tesi secondo cui i canti degli aborigeni australiani sarebbero un incrocio tra una leggenda sulla creazione, un atlante e la storia personale di un aborigeno in particolare. “Fermatevi a parlare con qualcuno e confrontatevi con chi parla una lingua che non comprendete o che magari fa ragionamenti diversi dai vostri. Sono esperienze piene di un’umanità globale e universale che racconta la vita. Noi stessi siamo i diari viventi di tutto ciò che abbiamo visto nel lungo breve orizzonte della nostra esistenza”: ecco che cosa ha significato per Chatwin guardare l’orizzonte.
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